venerdì, settembre 01, 2006

Inland Empire!

VENEZIA. Se David Lynch, il regista americano che la 63ª Mostra di Venezia premia con un Leone d’Oro per la sua carriera più unica che rara, autore del nuovo film Inland Empire, si sposa con la bravissima montatrice dei suoi film Mary Sweeny, madre di un loro figlio tredicenne, amica da sempre, divorzia poche settimane dopo. Se, compiuti i 60 anni, vuole fare qualcosa per gli altri, quasi cambia mestiere: creando una Foundation che insegna yoga e meditazione trascendentale secondo il pensiero di Maharishi Maesh. Se deve presentare un saggio all’American Film Institute, dipinge di nero l’intero terzo piano della sua casa e dirige un film in cui un ragazzino disturbato pianta un seme a terra, lo annaffia, lo cura, lo coltiva, sinché non ne nasce una nonna (i nonni sono stati felici compagni della sua infanzia). Se deve disegnare (sa farlo benissimo, ha cominciato come pittore passando al cinema per «estendere al cinema le atmosfere della pittura, una specie di pittura in movimento») una striscia a fumetti settimanale per L.A. Reader, il disegno non cambia mai: c’è sempre un cane furioso che digrigna i denti alle banalità del mondo esposte nelle nuvolette. Se sposa una compagna di studi da cui presto divorzia, e dei due figli la femmina, Jennifer, nasce con una malformazione ai piedi, dirige Eraserhead su una parternità mostruosa, suo primo lungometraggio costato cinque anni di lavoro, visto da 25 persone la sera della prima a New York nel 1977, divenuto un film di culto. Se la società di produzione di Mel Brooks gli offre nel 1980 la regia de L’uomo elefante con John Hurt, il film diventa non soltanto la biografia ottocentesca del mostruoso inglese John C. Merrick, prima fenomeno da baraccone, poi ospite privilegiato dell’aristocrazia londinese, ma un’opera fortunatissima sulla dignità e sul dolore, su quanto il brutto possa essere straziante, commovente. Se Dino De Laurentiis gli propone nel 1984 la regia di Dune ispirato al best-sellers di Frank Herbert, colossale saga epica, ne fa un fiasco o quasi: l’unico della sua vita professionale. Se nel 1990 la rete televisiva ABC accetta l’idea di un serial dedicato ai misteri di una cittadina americana di provincia, I segreti di Twin Peaks, il programma ha grande successo internazionale, ottiene risultati che superano ogni previsione e rendono celebre nel mondo, anche a livello popolare, il nome di David Lynch. Pure in Italia escono sue biografie: la più affascinante è quella scritta da Alessandro Camon. Cuore selvaggio (Palma d’Oro a Cannes, presidente della giuria Bernardo Bertolucci), Velluto blu, Mullholland Drive e altri film rafforzano e sostengono la sua celebrità, l’amore dei fan soprattutto giovani, la stima e il rispetto degli accademici e degli amanti della modernità vera. Lynch fa un bellissimo cinema di atmosfere, di dettagli, di mistero. Nei suoi film la provincia idillica del Sogno Americano è sempre la superficie agghindata dell’orrore; il colore delicato o splendente dei fiori nasconde il vorace brulicare degli insetti, forma bassa della scala evolutiva; sull’uomo pesa sempre una minaccia perenne di salto nel vuoto e di morte, una passione felice aspetta l’abbandono, la distrazione, il tradimento. Il sadismo, naturalmente, è sempre un occulto masochismo. Nessuno ci salva dalle contraddizioni del mondo. Il clima sospeso, misterioso, pauroso che Lynch è capace di creare, i suoi interrogativi insistenti («Chi ha ucciso Laura Palmer?») alimentano un’opera ammirevole, unica come la sua capacità di cancellare l’antagonismo tra cinema e tv. Nato a Missoula, nel Montana, è un uomo alto, di pelle bianchissima, con una testa di forma stranamente geometrica, con capelli spesso ritti come fosse elettrizzato, bravo pittore, bravo fotografo, ex amante di Isabella Rossellini: composto, combattuto, laconico. Chissà cosa celerebbe tanta qualità, in un film di David Lynch.

Lietta Tornabuoni, La Stampa, 30 agosto 2006

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